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Le civiltà occidentali come “Rapa Nui”(Una riflessione su ”Collapse” di Jared Diamond).

Liliana Adamo da Altrenotizie.org

Se per Michael Crichton il global warming è giusto una sovrastruttura mentale, un artificio che, in realtà non esiste, gonfiato a dismisura da un gruppo di maniaci ambientalisti, sostanzialmente diversa è l’opinione di Jared Diamond, autorevole “biogeografo”, psicologo evoluzionista dell’Università della California a Los Angeles, già vincitore del premio Pulitzer con il bestseller “Guns, Germs, and Steel”, che ci illustra come alcune civiltà, di fatto e con disinvolta ottusità, depredando sistematicamente il proprio ambiente, si siano indirizzate al suicidio di massa. Dal suo libro “Collapse: How Societies Choose to Fail or Succeed” (tradotto e pubblicato in Italia da Einaudi, che presenta anche il suo ultimo lavoro,“Il mondo fino a ieri”),un monito a tirarci fuori pericolo finché siamo in tempo.

Stimando l’enorme successo commerciale raggiunto negli States di questo splendido (e sconcertante) saggio, siamo portati a considerare unilaterale la sensibilità degli americani: nulla han potuto Kyoto, AbuGhraib, Guantanamo e l’unanime biasimo alla politica bellicista dei neocon e dei loro sostenitori, gli yankee paiono sconvolti dalle prospettive di disastro ecologico incombente sul pianeta (in ogni luogo, finanche a casa loro), piuttosto che prestar fede alle aprioristiche rimostranze di noi europei.

Un’intera sezione ispirata al bestseller e alle posizioni del professor Diamond è riconoscibile fra i padiglioni del “Natural History Museum” di Los Angeles. Spettacolari proiezioni di costruzioni ancestrali, raggi di luci misteriose a memoria d’antiche civiltà cadute, per un evento tra show e cultura, una serie dinamica d’esposizioni e discussioni intorno alle tematiche ambientaliste, le cui sorti sono legate alla società globale contemporanea. A questo proposito la domanda che ci si pone è se “gli irritanti rumori di fondo”, tali stati ravvisati gli argomenti dell’attuale movimento ambientalista d’oltreoceano, si rianimeranno grazie alle riflessioni sollevate da un “biogeografo” di fama, o perdureranno nella consueta rotta fallimentare.

In un recente editoriale del New York Times, Nicholas D. Kristof, autore di reportage, ecologista e premio Pulitzer, scrive: “Da un certo punto di vista, siamo tutti ambientalisti, ora…Più di tre quarti degli americani concordano sul fatto che il nostro paese dovrebbe fare ogni cosa per proteggere l’ambiente; ma il sostegno all’ambiente fa coppia col sospetto verso gli ambientalisti. La Morte dell’Ambientalismo sottolinea come un sondaggio del 2000 rileva che il 41% degli americani considera gli attivisti di quest’area come degli estremisti. Esistono ambientalisti seri, naturalmente, ma quelli con eccesso di zelo hanno fatto terra bruciata. La perdita di credibilità è un fatto tragico, perché d’ambientalisti ragionevoli c’è un urgente bisogno…Sarebbe un fattore critico avere un movimento ambientalista credibile, articolato e dotato di sfumature, molto rispettato. Ma ora, temo, non ce l’abbiamo.” Dunque, l’America è persuasa alle tesi di Diamond, o solo genericamente sedotta dal proliferare di un “nuovo sentire sociale”, pur diffidando dei propri attivisti e “delle azioni estreme”, in assenza di un movimento “articolato” (come suggerisce Kristof), dinamico sul territorio, le speranze per risollevare il problema sotto il mero aspetto politico, si riducono al minimo, a danno del mondo intero.

Di fronte al collasso incombente, la richiesta sempre più pressante di difenderci unicamente da noi stessi e dal caos che abbiamo generato, di fronte alla storia che ci ha preceduto, ricorre un eccedente d’esempi rivelatori, anche quando si rimescola ai miti e leggende, alle utopie, alla fantascienza o alle più irreali creazioni letterarie, propinata come un ammonimento e un modello di prova, senza però riuscire ad avere risposte per sollecitare interventi, per sapere qual è la direzione. Esistono disuguali dinamicità, se da una parte la società occidentale ha imboccato la strada di non ritorno (il protocollo di Kyoto appare un trattato già scaduto, inadeguato, a dispetto del fatto che la prima potenza mondiale lo rigetti tout court), dall’altra l’indagine empirica sulle ragioni di una società organizzata che cessa di vivere e tramandarsi, è appena agli albori. Così come le recenti tecnologie e nuovi sistemi d’idee e d’organizzazione collettiva, in grado di risanare il pianeta ed evitare il tracollo, al momento rimangono, per gran parte, impraticabili. Di queste colpe e omissioni la nostra civiltà dovrà renderne conto già dalla prossima generazione (e, parafrasando Kristof, non crediamo affatto d’essere estremisti).

L’impianto narrativo che adotta il professor Diamond si serve di un metodo comparativo basilare, descrivendo e classificando, riferendo dei problemi in modo schietto e diretto. La domanda è molto semplice ed è riportata sul retro copertina:”Perché” si chiede, “alcune società e non altre perdono il criterio fino ad auto-distruggersi? Perché alcune società prendono decisioni disastrose e cosa comporta questo per noi?  Il lungo resoconto è attraversato dai tentativi fallimentari di società e d’intere popolazioni. Analizzando analogie e discordanze, un metodo già adottato in opere antecedenti (vedi “Why Is Sex Fun?: The Evolution of Human Sexuality), il riscontro con situazioni presenti nel nostro momento storico è a tal punto calzante che produce al lettore l’effetto di un brivido gelido lungo la schiena. Paradossale quanto la nostra civiltà conclusa nella globalizzazione non abbia distribuito pari opportunità a tutti, invece che un’interdipendenza di disgrazie: alterazioni climatiche, modificazione degli habitat naturali, distruzione delle bio-diversità e degli ecosistemi. Le medesime fragilità e instabilità sociali e politiche, guerre globali. Certo, usiamo internet e gli aerei, ci serviamo di tecnologie domestiche che soltanto vent’anni fa erano impensabili, siamo forniti di conoscenze e competenze che potrebbero procurarci la chiave di lettura per disporre del nostro destino in modo benevolo, attuando una svolta.

Jared Diamond, studia a fondo dati apparentemente secondari e congiunturali di società primitive, sopraffatte da un disastro ecologico auto-prodotto. Un corto circuito che ha annientato del tutto un lungo degrado; in questo modo remote civiltà polinesiane dell’isola di Pasqua, i maya, i vichinghi dell’antica Groenlandia, si mettono a confronto, in assetto “scientifico”, con gli stati emergenti del Terzo Mondo, come il Ruanda, Haiti, la Repubblica Domenicana; paesi che difficilmente potranno sopravvivere al disordine, alla disorganicità, con governi scriteriati, povertà e sovrappopolazione; viceversa, paesi apparentamenti forti sui mercati globali come la Cina, l’Australia, gli stessi Stati Uniti, sistemi organizzati e complessi che mostrano già le loro crepe, le sindromi di sperpero e decadenza.

Gli antichi “Moai” simboli di potere e solitudine

Eclatante storia quella di Rapa Nui o Te Pito o te Henua, o comunemente detta, Isola di Pasqua (nome dato da Jacob Roggeveen, nel giorno di Pasqua del 1722). E’ in questa grande roccia di 166kmq, nata dai vulcani del profondo Oceano Pacifico, una terra vuota e desolata, dove oggi non c’è più nulla e nessuno se non mandrie di cavalli allo stato brado che corrono sulle piatte e aride colline e quei grandi, solenni Maoi, testimonianze di un’enigmatica traccia, che Diamond ravvisa il germe, il sintomo premonitore per le società occidentali. Affascinante teoria, certo, non priva di un certo fondamento; il microcosmo e l’ecosistema di questo lembo remoto, al largo delle coste cilene, sta a rappresentare emblematicamente la “nostra terra”, l’ambiente che abbiamo manipolato e trasformato.

L’originaria Rapa Nui, prima di mutare nel simulacro di un’autodistruzione collettiva, era un’isola verdissima, con grandi e rigogliose foreste di palme e toromiri, (ne sono stati analizzati i pollini). Unica oasi per moltissimi chilometri traboccava d’ogni specie di uccelli, d’acqua e di terra, sule, gufi, aironi, rallidi e pappagalli. Intorno al 400 d.c., i Polinesiani della tribù dei Maori vi portarono galline, una specie di roditori commestibili e perfino maiali, al posto delle palme interrarono banano, canna da zucchero, taro, patate dolci. Il suolo d’origine vulcanica di Rapa Nui era talmente generoso che le piante coltivate dai Polinesiani prosperarono con una facilità miracolosa. I Maori cominciarono così a disboscare le foreste per avere sempre più terreni a disposizione, e i roditori fecero la loro parte, divorando i semi degli arbusti autoctoni. Per costruire canoe e trasportare le sculture in pietra dei Moai, si disboscarono le foreste in modo inesorabile, finché, nel giro di un millennio, sull’isola non rimase un solo albero; le piogge corrosero il suolo privo di vegetazione, causando l’impoverimento della terra e della resa agricola nel momento stesso della massima incidenza demografica (i Maori erano arrivati a 9000). Il terreno eroso provocò la siccità dei corsi d’acqua che inaridirono. Privi del legno necessario per costruire imbarcazioni per catturare pesci e delfini, di cui si cibavano, i Maori e le loro gigantesche sculture di pietra rimasero “imprigionati” nella loro Rapa Nui, per sempre.

Mangiarono tutti i polli, poi, tutti gli uccelli originari dell’isola. Fu sterminata ogni forma di vita vegetale e animale, cosicché iniziarono a mangiarsi tra loro, con veri e propri atti di cannibalismo. I gruppi di famiglie, costretti all’antropofagia per sopravvivere, intrapresero cruente guerre e quando nel 1722 l’olandese Roggeveen, sbarcò sull’isola, non vi trovò che centinaia di ossa ammucchiate in una terra desolata e pietrosa e pochi sventurati che guerreggiavano per sfamarsi. Molte statue dei Moai erano state distrutte, la ferocia dei loro creatori si abbatté come una mannaia per cancellare le “personificazioni” di un potere con cui gli antichi capi avevano raschiato la natura rigogliosa dell’isola e dunque la vita. Un potere che, alla fine, li aveva annientati.

Siamo ben consapevoli che Rapa Nui o comunemente detta Isola di Pasqua, nella sua “magnifica desolazione”, è soltanto una roccia sperduta nell’oceano, al largo del Cile, battuta dalle tempeste e racchiusa nelle sue cupe leggende. Ben altro è il mondo occidentale, nei suoi insiemi sociali, culturali, dove tuttavia si dipanano le catastrofi descritte da Jared Diamond. Dove, tuttavia, agiscono persone e collettività dotate di volontà, sensibilità, capacità di decisione e d’azione. Diamond indica alle nostre società (e lo fa continuamente) d’operare una scelta. Ognuno di noi è l’esito delle sue propensioni, ma esistono margini per scegliere?

Todo me encantó el Caribe…

di Liliana Adamo, pubblicato su Island Viaggi

Ad Anna, perché tu possa essere ancora con me…

Come può essere vero? 
La notte scorsa ho sognato San Pedro 
Come se non fossi mai partita…

Tropicale è la brezza dell’isola 
Tutta la natura è selvaggia e libera 
Questo è il luogo dove desidero vivere 
La Isla Bonita …

La notte scorsa ho sognato San Pedro 

Sembra tutto come ieri, non così lontano… 

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E se le parole di Madonna non si riferiscono a Saona o a Bayahibe, ma ad Ambergris Caye, la più famosa delle isole coralline del Belize, il refrain del “La Isla Bonita” mi si è impresso nella testa per due settimane…non solo, durante gli ultimi giorni della mia permanenza, canticchiavo anche il vecchio brano di Ivano Fossati: “….Oh mamaçita Panama dov’è…, ora che stiamo in mare, sull’orizzonte ottico non c’è, si dovrà pur vedere…di andare ai cocktails con la pistola non ne posso più

piña colada o coca cola
non ne posso più
di trafficanti e rifugiati
ne ho già piena la vita
oh maledetta traversata
non sarà mai finita…

I Caraibi mi apparivano pieni di reminiscenze. E le mie erano proprio spicciole, terra terra…Ora che sono tornata, non più ammaliata da quella variopinta tavolozza naif, da dove inizio? Dagli antichi Tainos, dai pirati, da Cristoforo Colombo? Dalla natura straordinaria, dalla brezza degli alisei che increspa il mare? Ma no, attacco col clima, che ha rappresentato l’elemento più temuto, l’imprevedibile meteo delle mie vacanze. Certo, non mi aspettavo la replica d’Isaac (28 agosto 2012), l’ultimo uragano abbattutosi sulle isole caraibiche (Repubblica Domenicana, inclusa), però per una come me, avvezza alle secche, riarse temperature del Mar Rosso egiziano, pioggia e clima umido potevano rivelarsi un autentico shock…A conti fatti e giusto per avere un’idea di ciò che vuol dire condizione meteorologica in stile caraibico, vorrei che tu immaginassi una coppia in villeggiatura.

Lei e lui arrivano in aeroporto, mentre li attende uno sfavillante cabriolet a noleggio. Lei è seduta sul sedile anteriore, mentre lui è intento a sistemare le valigie nel bagagliaio. Aperta la decappottabile, la donna esclama: “Che sole meraviglioso!”. E lui, a poca distanza: “Ma qui piove!”. Storiella che si racconta ai turisti? Neanche per sogno, a noi è successo di peggio, l’aereo, un boeing lungo raggio con l’interno dell’abitacolo così ripartito, due posti ai lati e cinque centrali, rasenta il suolo per l’atterraggio e mentre continua la sua corsa lungo la pista, mio marito, guardando a destra verso i finestrini dei passeggeri seduti sulla fila parallela alla nostra, è attratto da un imperioso scroscio di pioggia che si abbatte sull’estremità dell’aereo: “Piove!”. Seduta accanto a lui, guardo in alto verso il cielo puntellato di stelle, levigato e terso come seta, sgranando gli occhi attraverso l’oblò: “Ma che dici, non c’è neanche una goccia d’acqua!”. Da anni studio le anomalie legate agli effetti del global warming, ma ammetto la mia sorpresa per una tale, repentina fenomenologia climatica…Bienvenidos al Caribe, señores!

Il genius loci, o meglio, il Lare di Hispaniola è il benvenuto riservatomi il mattino successivo ai Caraibi: il suono, lo strepitio degli uccelli tropicali che ti accoglie appena sveglia e ti lascia tracce indelebili fino al tramonto. Il Lare, perché questi è il Genio di un territorio posseduto dall’uomo e che l’uomo attraversa, entità naturale e soprannaturale legata a un luogo. Lo so, è la solita interpretazione personale ma bisogna per forza di cose essere stata lì per comprenderne l’esuberanza, la bellezza. Mi è capitato, in certe notti durante l’estate scorsa, d’aver catturato il canto d’amore degli usignoli attenuare il silenzio della campagna umbra; malgrado ciò, il suono sprigionato da un’innumerevole varietà d’uccelli esotici, riesce a possederti con una forza ipnotica e ancestrale.

Tra pini, cipressi, mogani, palissandri, banani, manghi, piante d’ananas, è un universo primigenio, animato da fregate, spatole rosate, fetonti dalla coda bianca, fenicotteri e specie endemiche uniche al mondo, il cuculo lucertino, lo smeraldo di Hispaniola, il barbagianni cenerino e le anatre selvatiche (fotografate all’interno del parco, nel nostro hotel). Lungo le spiagge, intravedi gli aironi, le garzette e poi ibis, ralli, pellicani, gli assidui, maestosi gabbiani.

Se hai voglia d’esplorare l’interno e immergerti nelle foreste delle Indie Occidentali, puoi incontrare – secondo la stagione e l’habitat – uccelli canori originari del Nord America e molte varietà locali, trogoni di Hispaniola, picchi, parrocchetti, pappagalli. Il curioso uccello delle palme, che mette insieme enormi nidi a mo’ d’appartamenti, dove ogni singolo componente della nutrita comunità, occupa una “camera”, è tra le specie predilette, eletto a simbolo della Repubblica Domenicana.

Per quanto mi riguarda, vorrei accennare al rapporto “complicato” iniziato con il “vecchio” pellicano stanziale. L’abbiamo visto riposarsi su in cima di un allampanato palmizio nel bel mezzo della prima “ricognizione” lungo la spiaggia (tra le più belle mai viste); armata di pazienza e macchina fotografica l’ho tallonato per ben due settimane, sfidando il caldo tropicale, ma lui, il veterano, scaltro e apparentemente svogliato, ha continuato a farsi beffe di me, levandosi improvvisamente e defilandosi, zigzagando tra i bagnanti. Risultato? Nonostante i miei sforzi, sono mai riuscita a immortalarlo…che rammarico!

La Repubblica Dominicana, è un enorme affresco tropicale dai toni caldi e accesi, dove ti avvolgono gli aromi del caffè/cioccolato/tabacco delle sue piantagioni e la gente che vive nelle strade si muove esattamente come in uno dei quadri del suo meraviglioso folklore. Le donne animano i mercati, i vecchi giocano a domino seduti nei patii delle case in legno colorato, i fidanzatini passeggiano mano nella mano tra bambini che si rincorrono, chiassosi e spensierati. Ovunque posi lo sguardo, i paesaggi sono perfetti “set” da dépliant turistici.

Jared Diamond annota nel suo saggio: …Non è facile capire perché una linea di frontiera lunga 193 chilometri divida in due l’isola caraibica di Hispaniola, separando la Repubblica Domenicana da Haiti. Visto dall’alto il confine sembra una ferita, una linea tracciata in modo arbitrario che divide nettamente due mondi: a est (la parte domenicana), verdi boschi e prati, a ovest (la parte haitiana) terra brulla e riarsa. A terra, la sensazione è la stessa: fermandosi lungo un punto qualsiasi del confine e volgendosi a oriente si vedono alberi a perdita d’occhio, mentre a occidente si estendono solo campi ingialliti. Questo contrasto è rappresentativo delle profonde differenze tra i due paesi. In origine tutta l’isola era ricoperta di foreste: i primi europei che vi sbarcarono si trovarono di fronte a boschi rigogliosi, ricchi di essenze pregiate. Oggi non è più così, particolarmente nella parte haitiana, dove si trovano solo sette aree boschive degne di questo nome, solo due delle quali (più o meno) protette… (da “Collasso – Come le società scelgono di morire o vivere ”). Questa parte di Hispaniola (l’altra è Haiti), sembra sia stata “concepita” su un preciso piano di sviluppo turistico da sogno: interminabili spiagge bianche dove le palme si protendono languidamente sul mare cristallino, tramonti infuocati attraversati fulmineamente da stormi d’aironi e gabbiani, nuvole blu e azzurre arrivano da Puerto Rico e dal lontano Yucatan, gonfie e spumose per inattesi, provvidenziali acquazzoni…

Come in tutte le nazioni contraddistinte da un melting plot etnicamente eterogeneo, anche i domenicani, giovani e vecchi, conservano nei tratti zambi, vale a dire indios/amerindi+africani/meticci e finanche europei, grazia e bellezza davvero particolari (e, nei modi, una cordialità sconcertante/Paulino Ismael, te ves como el ángel guardián de Bayahibe!).

Che gente sorprendente! Si riversa, nei weekend, sulle spiagge di Juan Dolio, Boca Chica o a Bayahibe, romanticamente definita “piccolo, rurale, borgo di pescatori”. Assolutamente da non perdere è la lontana, selvaggia Samanà (dove l’elettricità è arrivata solo nel 1992 e dove, nel mese di febbraio, è possibile avvistare decine di balene, che scelgono la baia antistante per accoppiarsi e riprodursi), mentre Punta Cana, sulla costa atlantica, si presenta come località ad alta vocazione turistica, oltre misura trendy, con un’atmosfera soft ed elegante, meno carácter latino e molto “american approach”

Su tutta l’isola si balla, eccome se si balla; osservare la naturalezza con cui i domenicani muovono fianchi e bacino al ritmo di merengue e bachata, è già per sé piacevole, nondimeno, pochi sanno che le note sincopate e trascinanti del merengue e quelle più morbide e sensuali della bachata, hanno radici autoctone e contaminazioni afro. La “música de amargue” (“musica d’amarezza”), aborrita dalla borghesia locale (che la considerava oscena e volgare), popolare nelle campagne, nelle strade e, ovvio, nei locali malfamati, pare sia nata intorno agli anni Quaranta, quale espressione delle classi più povere ed emarginate. Finché la versione originaria della bachata prevedesse che la coppia restasse avvinghiata, dondolandosi e producendo un procace movimento d’anca sul quarto battito musicale, molti hanno guardato questo giro di danza eccessivamente “spinto”. Oggi, l’interpretazione del ballo si è via via attenuata, incontrando i gusti anche dei meno “trasgressivi”.

Il compulsivo “merengue” o cuban motion, la più antica delle danze caraibiche, mantiene quasi intatte le sue contaminazioni dai tam tam africani, quando alle popolazioni indigene Tainos e ai conquistatori spagnoli, si unirono gli schiavi importati dal Corno d’Africa nel retaggio spirituale dei loro usi e costumi. Nel reggaeton, cuban motion o merengue, il motore è sempre lì, nel bacino, pulsione di tutte le movenze dei ballerini. In tutta la Repubblica Domenicana, la musica risuona per strada, nei locali con tavolini all’aperto (per pochi pesos), sulle spiagge e mai al chiuso claustrofobico delle discoteche. No me pregunte si yo bailaba a la Española … No voy a decir nunca … (E non chiedermi se ho ballato a Hispaniola…non te lo dirò mai).

Isla Saona: mi sueño Caribe! La rivedo in sogno, come Madonna con Caye, La Isla Bonita: le semplici case color pastello, l’entroterra e le lunghe spiagge solitarie, il Canto della Plaja e lo chalet del medico che salvò il Presidente, la sabbia bianchissima orlata di palme, il mare di un incredibile azzurro cristallino, il pescatore lungo la riva e il bambino che si rotola nell’acqua. Come nelle foto che ho scattato.

Ciò che mi ha maggiormente colpito (e affascinato) di Saona che davvero è un’isola “non turistica” e non alla mercé del turismo, il governo domenicano ha preferito lasciarla inalterata ai suoi pochi, veri abitanti (a Mano Juan e a Punta Catuano, veri discendenti degli antichi indigeni del luogo, i Tainos, cui restano, lungo la rotta per l’isola, pitture rupestri sulle rocce, lì dove si rifugiarono nell’intento di sfuggire ai conquistadores), autenticamente incontaminata. E poco importa se le lance arrivano da Bayahibe scaricando, fra rum e aragoste, escursionisti di un giorno, che sia stata usata come set televisivo e cinematografico (inclusi diversi spot pubblicitari del cioccolato Bounty), l’isola resta comunque un paradiso a tinte calde, intima e silenziosa, beauty and nature per antonomasia: mi sueño!

Saona, fra le più belle nell’arcipelago delle Grandi Antille, è parte del Parque Nacional Del Este istituito nel 1975 ed è in questa sorta di santuario che mi sono ritrovata nella capanna – ospedale di Negro, un uomo riservato, schivo e di poche parole. Questo “biologo marino” autodidatta, privo di fondi istituzionali, che potrebbe annoverarsi come l’ultimo dei veri naturalisti, raccoglie, cura e reintegra in mare, piccole di Caretta Caretta, di tartaruga verde (Chelonia mydas), di tartaruga embricata, ormai rarissima (Eretmochelys imbricata) e di testuggini giganti, chiamate tartarughe liuto, che raggiungono gli ottocento chili di peso (Dermochelys coriacea).

“Perché tanta dedizione?” gli ho chiesto.“Perché stanno scomparendo”, ha risposto…L’incontro con Negro è stato per me, uno di quegli eventi straordinari che talvolta si mette in conto, quando ti rimetti in viaggio, pero eso es otra historia…

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